Arte e cultura
Il romanzo che denunciò il patriarcato e le logiche mafiose in una Sicilia arcaica e non arcadica
Nancy Velardita

“La vigna di uve nere”

“La vigna di uve nere”, pubblicato nel 1953 dalla casa editrice Mondadori, è un romanzo scritto da Livia De Stefani.  La scrittrice ebbe i natali a Palermo nel 1913,da un’antica famiglia di facoltosi proprietari terrieri da parte di padre e di mistici e intellettuali da parte di madre. Per emergere da una terra che le stava stretta,oppure, verosimilmente, per un’esigenza interiore di “erranza” (come la intenderebbe M. Recalcati), a soli 17 anni spiccò il volo, si sposò e si recò a Roma con il marito, lo scultore Renato Signorini.  Nella capitale gravitò attorno ad Alberto Moravia, Alberto Savinio (al quale dedicò il romanzo di cui si scrive), Elsa Morante, Maria Bellonci, Vitaliano Brancati.  Si fece apprezzare per la cultura, per il garbato mecenatismo e per la cristallinità della sua scrittura. Fu la prima scrittrice italiana a descrivere con accenti arguti ed affilati le logiche e le dinamiche del potere mafioso in Sicilia, e non solo...

Nel 1940 fu pubblicata la sua opera prima, una raccolta di poesie dal titolo “Preludio”. Nel 1953 arrivò il successo con “La vigna di uve nere”,  un romanzo noir ispirato ad un fatto che alcune settimane prima aveva fatto balzare agli onori della cronaca il paese di Mazara Del Vallo: la scomparsa misteriosa di una ragazza di diciassette anni ed il coinvolgimento della famiglia.  Il romanzo è ambientato in una Sicilia cupa, arcaica e non arcadica e narra l’assassinio di una figlia, voluto ed eseguito materialmente dal padre, un bullo che ambisce ad esser promosso quale “uomo d’onore” e che, per salvaguardare la rispettabilità della famiglia, si trasforma in un assassino. 

Livia De Stefani, casualmente, mentre è seduta sull’autobus per rientrare a casa, legge la notizia e, impressionata, decide di dar nuova vita a quella ragazza innocente attraverso le pagine del suo imminente scritto. Ambienta la storia a Cinisi, in un mondo immoto, fossilizzato, dominato dal buio,dove l’onore ed il rispetto sono alimentati anche con i sacrifici di sangue, e tutto deve restare segreto. Non è la Sicilia del Verismo, né quella del “mondo offeso” di Vittorini (che, tra l’altro, si espresse tiepidamente ed osteggiò il romanzo), ma una Sicilia intrisa di tradizioni radicate, di gravanti solitudini, di dolore individuale e familiare che non lascia spazio all’amore. La trama de “La vigna di uve nere”, a guardare in filigrana,  “mutatis mutandis",  potrebbe ricordare quella della povera Saman Abbas, la ragazza pakistana di 18 anni scomparsa a Novellara (Reggio Emilia) nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio 2021 e ritrovata cadavere, dopo faticose ricerche,lo scorso novembre, dentro una buca profondissima: uccisa per lavare l’onore, dopo la fatale decisione a tavolino, sia dai genitori, che poi ritornarono in aereo in Pakistan, come se nulla fosse accaduto, che da zio e cugino. Il movente è lo stesso: amare chi non deve essere amato e trasgredire le norme imposte dalla famiglia e dalla comunità.  Saman si comportava  “all’occidentale”,  non indossava quasi mai i costumi tradizionali del suo paese, amava un ragazzo italiano e non accettava lo sposo imposto dalla famiglia; aveva trasgredito il codice d'onore e le regole di comportamento previste per una “brava ragazza” in seno alla comunità d'origine, microcosmo “tutelativo” nel cosmo d’inserimento. Anche Rosaria, la vittima sacrificale del nostro romanzo, viola le regole della casa, del microcosmo, non si cura del promesso sposo innamora del ragazzo taciturno che le viene presentato e “imposto” durante l'adolescenza come fratello.

Nel testo non viene mai citata la parola mafia, ma le logiche sono quelle...   L’atmosfera è intrisa di mafia,il protagonista ha tanti scheletri nell’armadio e nominarla suonerebbe ridondante! La scelta del nome è già parlante:Casimiro Badalamenti (nomen omen!).

La De Stefani,sorprendentemente per quei tempi, pare anticipare Peppino Impastato, l'eroe morto proprio a Cinisi il 9 maggio 1978, che attraverso “Radio Aut", radio libera autofinanziata, e la trasmissione satirica “Onda pazza”, sbeffeggiava il boss locale Tano Badalamenti con l’epiteto “Tano seduto”e, coraggiosamente, ne denunciava il coinvolgimento nella mafia e nel traffico di droga. Nel romanzo della De Stefani, Casimiro Badalamenti era stato costretto a scappare dal suo paese d’origine dopo che suo padre era misteriosamente “scomparso”, probabilmente per un regolamento di conti. Approdato a Cinisi era stato benignamente accolto da un’ex prostituta, Concetta, donna sottomessa ed acquiescente, innamorata e felice di poter “meritare”, finalmente, la protezione di un uomo ed un nuovo status di rispettabilità assegnatole dalla “ conversione ad uno”.  Tanta omertà,tanti silenzi, nell’occultare i luoghi e le famiglie presso cui venivano collocati i figli che, uno dopo l’altro, la povera Concetta metteva al mondo e lui dava via, mortificandone la fecondità,la voglia di maternità e il diritto di fare la madre.   Come nell’antica Roma,egli era un pater familias con  “ius vitae necisque” (diritto di vita e di morte) sulla propria famiglia, e disponeva di moglie e figli come oggetti.  Concetta era una  ”matrona” e una “serva”accondiscendente, una “torre di carne” sottomessa al marito e pronta a seguirlo fino alla decisione estrema, come la madre di Saman.

Le altre “dramatis personae” del romanzo sono Rosaria e Nicola. La dolce Rosaria conosce Nicola, il fratello allevato da altri, “ritrovato” dopo anni per volontà del padre che intendeva dar forma a una famiglia. La ricongiunzione tardiva e il riconoscimento della fratellanza reciproca, però, mostrano un’enorme falla, e i due si innamorano senza consapevolezza, "senza coscienza".  Vengono puniti, ma la sorte peggiore tocca naturalmente alla ragazza, che viene scaraventata dal padre sotto un treno in corsa, col tacito silenzio/assenso della madre Concetta, che, alla fine, diventerà folle per il dolore.

Una logica impossibile da comprendere per chi non è nato allora in quella parte di Sicilia che, tra condanna e assoluzione, Bufalino definiva Sicilia “sperta”, cioè furba, pericolosa, contrapponendola ad un’altra Sicilia, più ingenua, definita“babba”.  Nella prefazione al romanzo, Carlo Levi poneva l’accento proprio su quei luoghi chiusi come prigioni, “regni murati dove ogni partenza è fuga,ogni fuga è sacrilegio, tradimento,delitto mortale”.

A me pare che dalla nebbia possa emergere la morale dell’ostrica di verghiana memoria, ma con un “surplus” da tragedia greca, e con il ricordo del Sacrificio di Isacco di biblica memoria.  Come in una tragedia greca, ne “La vigna di uve nere" il feroce Agamennone (Casimiro) non esita a sacrificare sua figlia Ifigenia (Rosaria); non ci sono, però, gli dei che lo ordinano e che, in qualche modo, potrebbero regalargli l’assoluzione. Non ci Sono cause nobili o destini di popoli in gioco; vi è solo l’onore tradito e la reputazione macchiata che, per Rosaria e per Saman, assumono il ruolo di “Ananke” inalterabile e suprema. Colpisce che non appaia ombra di rimorso in Casimiro Badalamenti per l’uccisione della figlia.  Perché andava fatto... Semplicemente.  Vi è quella che i greci chiamavano“hamartia”, cioè lo sbaglio morale, l’errore per una colpa oscura o per un difetto non corretto in tempo e che risulta fatale; è un contagio che investe la famiglia dall’interno e si propaga ai discendenti, a tutta la stirpe...   Nessuno può essere esente da colpa, e l’uva appare nera come il sangue, color di morte.   Le logiche mafiose della terra sicula sono al centro di un altro romanzo, “La mafia alle mie spalle”, pubblicato nel 1991, poco prima della sua morte.

In quelle pagine, la De Stefani, ebbe l’ardire di descrivere un suo incontro con il boss mafioso Vincenzo Rimi quando fu costretta a confrontarsi con lui per la vendita dell’ex feudo che le era toccato in eredità. In tale occasione la scrittrice era stata osteggiata anche dai parenti siciliani per interesse economico.  Il boss, che riteneva le donne come esseri inferiori, lodò la temerarietà della nostra e la capacità di parlare ad un uomo proprio come avrebbe fatto un uomo!

La De Stefani merita di emergere dal dimenticatoio in cui è stata confinata per troppi anni, configurandosi come “legna buona che fa fuoco”, voce che parla il linguaggio della franchezza e dell’attualità.

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