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Gabriele d'Annunzio ebbe un rapporto speciale con il cibo. L'uomo dal vivere inimitabile, il Vate, l'eroe, fu esigente e ricercò esclusività e bellezza anche nel banchettare.
Nancy Velardita

Gabriele d’Annunzio, il cibo e la memoria

Potremmo definirlo non tanto un gourmet, quanto un  "esteta gastronomico".  Il filosofo Feuerbach ne “Il mistero del sacrificio”  sosteneva che le abitudini alimentari possano svelarci molto sulle caratteristiche di una persona perché  “ l’uomo è ciò che mangia”.

Al Vittoriale degli italiani i cibi non dovevano mai essere presentati in modo banale o sciatto, e nemmeno con tovaglie, accessori e stoviglie che fossero dozzinali, perché il poeta era un esteta in ogni aspetto della sua vita, e quindi anche a tavola.  Ricordiamo, ad esempio, i preziosi piatti in argento incisi da Renato Brozzi con motti dannunziani e gli appariscenti pavoni segnaposto in argento e pietre dure.  Le pietanze  che  uscivano dalle cucine dovevano essere ricercate nelle materie prime, eleganti e sofisticate nella presentazione e nella "mise en place".  Un'opera d'arte. Talvolta il Vate infiocchettava e nobilitava il nome dei cibi o, da fervente cultore dell'italico idioma, ne sostituiva il nome straniero.  Si pensi al tramezzino, così ribattezzato in alternativa alla parola sandwich. In occasione della ricorrenza dell'anniversario della sua nascita (1863-2023) alcuni Chef stellati, tra cui Marcello Spadone, in Abruzzo, hanno reinterpretato il pollo in terrina tanto amato dal Vate. Racconta Spadone: “Lo abbiamo panato con panbrioche e accompagnato con misticanza del nostro orto condita con aceto di visciole e salsa allo yogurt in sostituzione del Sangue Morlacco - un liquore ottenuto dall'infusione di ciliegie marasche, tipo Ratafia, dal caratteristico colore rosso cupo che il poeta ribattezzò  "sangue Morlacco"  in occasione dell'impresa di Fiume di dannunziana memoria”.  Il cibo era collegato alla nostalgia, alle radici, all'infanzia con la madre che lo chiamava a tavola quando era pronto, alle rimembranze ed alla genuinità dei giochi giovanili.  E se Proust aveva la sua "madeleine", d'Annunzio non perse mai, nel labirinto della sua variegata e perigliosa vita, il filo rosso dell'amore per la sua terra natia e per alcuni cibi prettamente abruzzesi,come il formaggio ed il  “parrozzo” (ideato da Luigi D’Amico, un bravo chef, sodale del d’Annunzio, a cui il poeta dedicò una bella recensione).  In alcune lettere il Vate ricorda, infatti,il gradito dono del formaggio che ogni anno  l'amico di suo padre gli inviava, un cacio nerastro, rugoso, durissimo, pesante  “che si poteva rotolare sulla strada maestra a guisa di ruzzola in gioco”. Guardando la forma di cacio, si sbobinava il nastro della memoria,  e il poeta  si rivedeva quando, a 10 anni, anche lui era stato un ruzzolante sulla strada di Chieti e si  era divertito a legarsi al braccio lo spago, avvolgendolo intorno alla forma di calcio, prendere la rincorsa per tirare velocemente, e  in furia se la gente rideva di lui.  In una delle tante novelle ricorda i formaggi della sua terra "più tondi della luna”,  ricorda la vendemmia, la svinatura e lo spavento che provò da bambino quando i genitori misero in tavola un  cacio vermicoloso e lattiginoso che si spostava nel piatto!

Il cibo panacea della memoria, ma anche odio ed amore. Uomo del contrasto, da un estremo all'altro: grandi abbuffate seguite da strategici,  estenuanti digiuni per tornare in forma.  Eppure, razionalmente,  non amava eccedere; nutrirsi per lui era un atto grossolano, e nel cibo ricercava, volendo citare il filosofo Derrida, ”la più adatta maniera per rapportarsi all’altro e  rapportare l’altro a sé”; inoltre bramava un coinvolgimento sensuale,emotivo :  “Mi sembra più bestiale riempire il triste sacco, rifocillarmi, che abbandonarmi all'orgia più sfrenata e più ingegnosa” scriveva. Probabilmente, uno dei motivi per cui gli faceva ribrezzo mangiare, e soprattutto mangiare di fronte agli altri,è perché aveva il complesso (ebbene… sì… anche lui aveva un punto debole!) dei denti neri, corti e rovinatissimi che non poté o non volle curare. Lo metteva in imbarazzo masticare davanti ad altri e si annoiava per il protrarsi di lunghi banchetti, così, affinchè gli ospiti finissero celermente di pranzare, organizzava dei giochi con dei bigliettini poetici, improvvisando e leggendo i versi che il suo cuore gli dettava. Ma la trovata geniale fu un'altra: lo stratagemma della tartaruga.  Per convincere gli ospiti a mangiare poco (così, di sicuro, salvaguardava il portafoglio!), aveva una gigantesca tartaruga africana  donatagli dalla Marchesa Luisa Casati Stampa.  Alla tartaruga, apprezzatissima anche perché insolita, rara da trovare, diede il nome  di Cheli.  Un giorno, purtroppo, Cheli morì per indigestione a causa delle tuberose di cui l’aveva fatta ingozzare la pilota Maria Antonietta Avanzo, e D'Annunzio, triste, fece realizzare  allo scultore Renato Brozzi una tartaruga identica all'originale che sistemò con il carapace  a capotavola nella sua stanza tricliniare, chiamata appunto “sala  della Cheli”, ultimata nel 1929.  Quella tartaruga in bronzo, così realistica, così scura ,grande e inquietante, serviva da monito ai suoi ospiti affinché ricordasse loro di non mangiare troppo o avrebbero fatto la stessa fine! Memento Mori!

Una fonte preziosa è, per la nostra ricerca, lo storico Giordano Bruno Guerri, presidente del Vittoriale (ha curato anche la prefazione del libro di Miliani-Santeroni)  che racconta molti gustosi aneddoti relativi al poeta. Per il poeta il cibo era fonte di piacere estatico, di coinvolgimento emotivo,di eros. Talvolta il cibo divenne un accessorio estetico e uno strumento della sua consumata  ars amatoria, ad esempio quando utilizzava gli acini d'uva per sedurre le sue donne, le ciliegie, la cacciagione, i petali di rosa,le viole nei risotti e il vino pregiato.  Altra peculiarità: al Vittoriale possedeva  una cantina con vini pregiati provenienti dalla Francia e dall'Italia e soprattutto una ghiacciaia che allora  era un lusso. Ebbene… lui non bevve mai nessuno di quei vini perché era astemio!  Li sfoggiava e li offriva.  Il Vate bevve il vino solo per un periodo della sua vita, quando si trovava a Parigi, dato che  il suo archiatra e i viticoltori lo motivarono ad assaporarlo per  i benefici che esso avrebbe apportato alla circolazione.  Amava costolette di vitello  e patate, mangiava moltissima frutta e adorava i cannelloni della sua cuoca Albina.  Costei era Albina Lucarelli Becevello, trevigiana, da lui scherzosamente appellata  Suor Albina o Suor intingola ma anche Suor indulgenza plenaria,Santa Albina, Pingue cuoca e Suor Ghiottizia. L’amata cuoca del Vittoriale.   Il Vate consumava carne, selvaggina, pesce, soprattutto frutti di mare e non mancavano mai i cannelloni e i risotti. Amava le mandorle tostate, i marrons glacés, la cioccolata e i gelati.  (L'ingordigia per i gelati  lo accomunava ad un altro grande, Giacomo Leopardi).

A lei dedica anche commenti lusinghieri che spesso si trasformano in liriche irresistibili: «Dilettissima Suor Albina, tu avevi superato tutti i grandi cuochi moderni. Con la perfezione del pollo di Beauvais tu hai superato i più famosi cuochi antichi. Ieri, entrando in me, quel pollo ridiventava angelo, spiegava le ali e si metteva a cantare le tue lodi: Laudate, Ventriculi, Sanctam Albinam, coquam excelsam!». 

In una lettera si lagna perché, essendo assente la sua cuoca prediletta,le altre cuciniere gli avevano preparato una costoletta che non era stata di suo gradimento.   Scrive il 19 aprile 1934 ad Albina: “Da alcuni giorni mi è venuta una voglia pazza di certe costolette che tu mi facevi riducendo a furia di battiture con un Pestello di pietra la carne più sottile di una buccia di banana d'una crosticina di pane sfornato, di una fetta di patata fritta e magari di un’ Ostia consacrata dall'arciprete Fava le domestiche, invece in assenza della cuoca, gli avevano servito “costolette unte e bisunte, gonfie come rospi”. Era molto ghiotto di frittate e di insalate.

Insalata alla G.d’Annunzio

Cuocete in acqua e sale 2 dozzine di fondi di carciofi; marinateli per 2 ore con sugo di limone,  olio, pepe, sale e scalogne trite. Con 200 grammi di olive, 50 code di gamberi e 200 grammi di patate, apparecchiate una dadolata che condirete con maionese all’aceto serpentario e un triturato di cerfoglio; con questo composto riempite i carciofi, decorandoli con della maionese leggermente colorita di rosa e cetriolini all’aceto. Servite sopra una coppa fatta di ghiaccio leggermente colorito in rosso. I carciofi possono anche essere presentati a crudo, tagliati in liste sottili.(fonte utilizzata: il web).  Una leccornia  per coloro che, non potendo aspirare alla vita inimitabile di Gabriele d’Annunzio, sperano almeno di assaporare uno spicchio della sua poesia ed eleganza.

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